04/11/2021
Dialoghiamo con Diego Lama, testimone nella terza “udienza” dedicata a Matilde Serao nell’ambito della nostra inchiesta sulla storia del Giallo Napoletano
Nato a Napoli nel 1964, architetto e giornalista, ha pubblicato diversi romanzi e racconti prima di vincere il Premio Tedeschi 2015 con la “La collera di Napoli”, romanzo centrato sulla figura del Commissario Veneruso che indaga nella Napoli di fine Ottocento ed in particolare durante l’epidemia di colera del 1884, drammatico evento che segnò profondamente la storia anche urbanistica e sociale dell’ex capitale del Regno Borbonico visto il successivo piano di risanamento che, mutuando il titolo del famoso libro “Il ventre di Napoli” scritto proprio dalla Serao, fu spesso più noto come “sventramento”
Stesso periodo e stesso protagonista nell’ultimo romanzo dei 2021, cioè “Tutti si muore soli”, nel quale il Commissario Veneruso vive un altro drammatico evento naturale (cioè il terremoto del 1883) insieme ad un’avvenimento che invece è totalmente inventato cioè un’inchiesta nella quale tra i sospettati ci sono nientemeno che la stessa Serao oltre a suo marito Edoardo Scarfoglio, i giovani Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo oltre ad un già anziano Francesco Mastriani (protagonista della nostra precedente udienza del 20 Settembre)
Come è nata l’idea di dar vita per “Tutti si muore soli” ad un incontro del Commissario Veneruso con cinque personaggi storici così importanti, ed a quali fonti hai fatto ricorso per disegnare il loro carattere? Visto il tono a tratti parodistico che queste figure assumono nel tuo libro, hai avuto timore di essere considerato poco rispettoso verso dei veri e propri monumenti nella storia culturale ed artistica della città?
Sì, sono stato un po’ impertinente nei confronti di alcuni personaggi storici del passato – certamente – ma non credo irrispettoso… Almeno spero!
Le fonti sono state molteplici. Anche se non avevo mai studiato approfonditamente e singolarmente ciascun autore, devo dire che ho scoperto di avere in casa molti testi di Croce, Viviani, Serao e Di Giacomo… testi che ho iniziato a leggere con un’attenzione diversa quando ho deciso di farli vivere nel romanzo. Molte altre informazioni le ho recuperate in Biblioteca Nazionale (che è un luogo che frequento con assiduità da 20 anni). Tante notizie storiche sono invece semplicemente dovute alla mia formazione di architetto e urbanista e alla mia passione per la storia… Ma tantissimo l’ho inventato di sana pianta: le cose più veritiere sono finte, come sempre.
Sia nell’ultimo romanzo che nel precedente le inchieste del Commissario Veneruso si sviluppano sullo sfondo di eventi realmente accaduti (e nel caso dell’epidemia di colera con significative analogie rispetto al nostro presente); è una pura scelta di tecnica narrativa per rendere il racconto più avvincente oppure nasce dall’esigenza di un rapporto più stretto con la storia della tua città?
L’ho raccontato molte volte: scrivo per liberarmi da alcuni fantasmi che mi perseguitano da quando ero piccolo: sono convinto che i demoni del passato attraversano le generazioni e ritornano… E allora bisogna renderli visibili per conviverci, un po’ come ho fatto io.
Ecco la storia.
Mi imbarazza scriverlo, ma la mia famiglia deve moltissimo all’epidemia del 1884: senza contagio, senza morte, io, i miei figli, i miei fratelli, mia madre, mio zio, mia nonna e tanti prozii, non sarebbero mai nati.
Tutti noi dipendiamo dai grandi eventi del passato. Nel caso della mia famiglia la dipendenza è precisa e diretta: cercherò di raccontarla in modo sintetico.
Circa vent’anni dopo l’Unità d’Italia, Napoli fu colpita da una violentissima epidemia di colera che giunse dal nord, che attraversò tutta l’Italia e che in Campania – forse per il clima, le condizioni igieniche della città, la miseria – trovò terreno particolarmente fertile per diffondersi.
Iniziò a propagarsi alla fine dell’agosto del 1884 nei quartieri poveri, vicino al porto, ma dopo qualche giorno raggiunse anche quelli borghesi: tutta la città fu colpita dal morbo nell’arco di poche settimane.
Alla prima onda epidemica seguirono altri contagi negli anni successivi, fino al 1887: in città e provincia morirono forse più di 10.000 perone, e se ne ammalarono 50.000. Tra questi morti vi fu anche una signora che abitava nei pressi di via Foria a Napoli. Era la sorella della mia bisnonna e si chiamava Angela Corcione. Fu colpita dal morbo nel 1886 assieme a un numero imprecisato di figli piccoli (forse quattro, mentre ne rimasero in vita altri cinque). Probabilmente venne sepolta nel Cimitero delle 366 fosse o in quello adiacente, chiamato dei Colerosi. Angela lasciò, oltre ai cinque figli, anche un marito, Francesco Carusio, funzionario del Banco di Napoli.
All’epoca era molto difficile portare avanti una famiglia numerosa senza l’aiuto di una donna. Francesco doveva trovare una nuova sposa in fretta: probabilmente aveva solo l’imbarazzo della scelta. Però non andò lontano a cercarla. Con il beneplacito della società partenopea di fine ottocento, e probabilmente con il favore della famiglia, scelse di sposare la sorella più giovane di Angela che si chiamava Giuseppina. Giuseppina però, che da bambina aveva giocato sulle ginocchia del cognato, non voleva sposarlo. Lo odiava. Il ricordo di quelle ginocchia (che ci è stato trasmesso di generazione in generazione) serve a far comprendere l’orrore che provò la mia giovane bisnonna quando le fu fatta la proposta di matrimonio dal vecchio cognato. Nonostante le insistenze della famiglia (perfino dei figli di Angela, che volevano lei come matrigna piuttosto che un’estranea) Giuseppina disse sempre di no. Poi una notte – anche questo è stato trasmesso in famiglia come una leggenda – le apparve in sogno la sorella che le intimò di non lasciare i suoi figli nelle mani di una sposa sconosciuta…
Insomma: non erano riusciti a convincerla i vivi, ci riuscì uno spirito. Forse un sogno. Non fu un matrimonio felice. Non credo: Giuseppina a 28 anni era considerata già una strana zitella cui dare in fretta un marito, mentre Francesco – che aveva oltre 50 anni – doveva essere ormai un vecchio vedovo. Fu un’unione d’opportunità che convenne un po’ a tutti.
Dai racconti di famiglia sembra però che Giuseppina provasse gran ripugnanza per quel cognato–marito del quale non avrebbe mai potuto innamorarsi e che mai desiderò. Ciononostante con lui fece cinque figli… La primogenita di questa seconda progenie – che fu chiamata Angela in onore della zia morta di colera – fu proprio mia nonna.
Almeno fino alla seconda guerra mondiale la storia di questa prima famiglia è disseminata di morte e di dolore, e quindi di fantasmi che – ne sono certo – vivono ancora in tutti i suoi discendenti. Ma non voglio raccontarla qui, forse lo farò altrove. Il colera però deve aver inciso profondamente sulla mia storia personale, anche se non lo sapevo, non prima dell’arrivo di Veneruso, con i suoi fantasmi, i suoi demoni, le sue paure, i suoi malumori, la sua collera. Il commissario è dunque figlio di quelle vicende tramandate di generazione in generazione e di tante atmosfere che mi sono state trasmesse assieme ai ricordi e alle favole. Però l’ho capito lentamente: solo adesso ne sono certo.
In “Tutti si muore soli” c’è una forte presenza (con tanto di glossario finale) della lingua napoletana che è anche al centro delle iniziative culturali della Fondazione isaia. Nel romanzo si confrontano il Direttore della Biblioteca Nazionale, che denuncia il rischio di “uccisione” di questa lingua, e il Commissario Veneruso, convinto invece che solo le persone muoiono e non le lingue; Diego Lama come si schiera in questa diatriba?
Ogni giorni muoiono milioni di mondi. Ciascuno di noi è legato agli altri da ricordi, progetti, emozioni, affetti… Una sorta di energia impalpabile ma potente unisce tutti gli esseri umani in una rete di memorie. Quando muore qualcuno questa energia evapora e con lei scompaiono tante cose (ricordi, progetti, emozioni, affetti), questa energia – scomparendo – si porta dietro mondi giganteschi, ogni giorno… E pian piano il nostro universo muta e progredisce: in questa ottica scompaiono anche le lingue, le culture, i modi di fare, di dire e di amare.
Non si può fermare il tempo, però si può raccontarlo, o almeno provarci, come ho cercato di fare io in “Tutti si muore soli”, che racconta la morte di una lingua, di una cultura e di un tempo ormai andato…